Temakinho, un successo tra sushi e samba

Abbinare cocktail e food è una delle scommesse vinte da Temakinho, sempre più in espansione: da Londra a Torino, per una media di quattro opening all’anno

Quando a Milano, sei anni fa, Temakinho inaugurò il primo ristorante, non tutti compresero immediatamente di cosa si trattasse. Da una parte, a confondere le idee, un layout eccentrico, sgargiante e festante, quindi non assimilabile a quello più classico e composto che uno si aspetta da un locale di cucina ‘fusion’. Dall’altra, un nome nuovo, una sorta di storpiatura di un piatto tradizionale della cucina giapponese, il temaki, pronunciato alla ‘carioca’. E poi, in aggiunta, l’idea, al tempo giudicata da molti bizzarra e avventata, di proporre un cocktail durante la cena, al posto di una birra o di un sacro calice di vino. Insomma, una serie di elementi inizialmente fuorvianti e giudicati come un azzardo.

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Il Temakinho all’interno della Rinascente di Roma

Eppure avere colto di sorpresa i consumatori milanesi si è rivelata mossa vincente e l’insegna si è prima fatta notare e poi apprezzare. L’espansione è stata naturale e, a ritmo di samba e compostezza nipponica, a Milano e Roma, dove rispettivamente si contano quattro e tre ristoranti, si sono aggiunti gli approdi all’estero di Londra, Formentera e Ibiza. Il piano di sviluppo è avviato e, nei primi mesi del 2019, è atteso il taglio del nastro a Torino e quello del secondo punto vendita londinese. Il momento attuale è quindi molto caldo per Temakinho. È sembrato opportuno e interessante contattare e intervistare Linda Maroli che, insieme a Santo Bellistri e Francesco Marconi, è la fondatrice dell’insegna che, a giusto titolo, si può considerare come primo caso di casual dining nippo-brasiliano inaugurato in Italia. Tre partner nel business, ma soprattutto amici, che proprio durante un comune viaggio a San Paolo hanno scoperto l’intreccio food dei due Paesi, sono rimasti deliziati dalla bontà dei sapori e dei piatti proposti, e tornati in Italia hanno dunque deciso di fare confluire l’esperienza in un ristorante.

Linda, sono trascorsi sei anni dal vostro esordio in Italia, è cambiato da allora il target di Temakinho?
Pensiamo di no, anche perché riteniamo di essere aperti a una clientela trasversale. Da noi s’incontra la nonna con il nipote uscito da scuola, il businessman per una pausa pranzo e con l’immancabile auricolare del cellulare all’orecchio anche quando mangia, la coppia di innamorati al loro primo appuntamento a cena, così come in generale la famiglia. Volendo fare una stima, la maggioranza dei clienti può racchiudersi nel range tra i 25 e i 35 anni, che prediligono posti nuovi da provare e amano mangiare bene e sano.

Ora che siete diventati un nome affermato nel panorama ristorativo, chi sono i vostri principali competitor?
In primis, quelli che offrono menu giapponesi e che, oltre alla cucina, propongono al cliente uno spazio cocktail di qualità e una location con layout accattivante e moderno. Non è azzardato affermare che, da quando siamo nati, sono sorti altri ristoranti che hanno preso ispirazione dal nostro format.

Ai clienti che siedono al tavolo dei vostri ristoranti quali servizi assicurate sul posto?
Chi ci conosce sa che Temakinho è un brand di ‘casual dining’, con materie prime di ottima qualità e prezzi competitivi. I nostri punti vendita offrono un servizio rapido al tavolo, l’acqua è fornita gratuitamente ed
è frutto della nostra scelta di aderire al progetto ‘imbrocchiamola’ promossa da Legambiente. E ancora: tutti i ristoranti hanno il menu pensato ad hoc per i bambini e il fasciatoio in bagno. Stiamo, inoltre, lavorando alla realizzazione di un’applicazione tecnologica che permette di consultare foto e ricette di tutti i piatti, ma anche di accedere a un menu in braille per i clienti non vendenti.

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Vi è mai passato per la mente di variare
il format?
Ci piace definire la nostra insegna come format ‘fluido’, in grado di adattarsi alla città dove, di volta in volta, apriamo un punto vendita, pensato in linea sia con le abitudini delle persone che vivono nel quartiere di destinazione, sia con l’architettura che caratterizza la zona stessa. Per ora il nostro take away avviene con Deliveroo. In futuro chissà. Le discussioni su eventuali nuovi progetti sono all’ordine del giorno e sappiamo di potere contare su un parco fornitori che ha totale fiducia nelle scelte che prendiamo. Mi limito a dire che potremmo operare nel mondo del biologico con formule innovative di somministrazione, ma per il momento non svelo altro e faccio calare su questa cosa un simpatico e momentaneo ‘top secret’.

All’estero la vostra strategia di business cambia rispetto a quella che seguite in Italia?
In realtà la politica di sviluppo e crescita rimane sempre la stessa, che vuole dire attenzione focalizzata su materie prime, sostenibilità, design dei locali e dipendenti. Diciamo che gli spagnoli e gli inglesi non si lasciano troppo intimidire quanto gli italiani dalle nuove soluzioni culinarie e gastronomiche, come possono essere quelle, per esempio, dettate dall’utilizzo sostenuto della cipolla o del coriandolo. In Italia sappiamo di avere a che fare con un pubblico molto curioso, ma allo stesso tempo esigente e in media conoscitore del mondo food. Questo per dire che, all’estero, ci sentiamo un po’ più liberi di ‘osare’ sulla variazione e introduzione di nuove ricette. Puntando ovviamente su quelle che ottengono i migliori consensi ed eliminando ciò che da subito non trova i favori del cliente. Italiano o straniero che sia.

Visto che ne ha accennato prima, chi sono
i vostri fornitori di base?
Abbiamo allacciato rapporti molti solidi con bellissime realtà sia per il cibo che per quello che riguarda il décor degli ambienti dei ristoranti. Sul pesce, materia prima principe del nostro menu, abbiamo selezionato una serie di allevatori che consideriamo tra i migliori al mondo. Per esempio, l’ombrina che usiamo in cucina viene da Mauritius dove viene allevata in mare aperto seguendo tecniche totalmente rispettose dell’ecosistema (utilizzano, per intenderci, solo barche elettriche). Il salmone, invece, lo acquistiamo da una famiglia che fa questo lavoro da generazioni e segue allevamenti nel mare aperto della Norvegia. I nostri fornitori sono in sintonia con la nostra filosofia: amore per le materie prime e rispetto del personale. Oltre che per l’ambiente.

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Com’è nata la scelta di introdurre nei vostri ristoranti il pairing cocktail/food?
Partendo da un presupposto molto semplice: in tutti
quei paesi dove non si produce vino, o lo si fa in maniera sporadica, non si hanno troppi problemi a pasteggiare regolarmente con un cocktail, anzi la cosa piace molto. Il Sud America, nonostante conti al suo interno nazioni con grandi produzioni vitivinicole, non fa eccezione.

Come siete riusciti a convincere gli italiani a preferire l’abbinamento cibo-cocktail?
In Italia ci siamo subito accorti che proporre un drink miscelato al cliente italiano non è così complicato, anche perché da noi il pubblico che ama uscire fuori
a cena vuole vivere un’esperienza che sia in parte diversa dal solito, dimostrandosi inoltre aperto alla sperimentazione. E poi facciamo un auto elogio: lacachaça biologica ‘Mais Amor’, da noi prodotta, rende la Caipirinha davvero irresistibile anche per coloro che sono grandi amanti del Nettare di Bacco.

Per seguire un’offerta sostenibile, avete deciso di non usare il tonno rosso nelle ricette. Come reagiscono i clienti a questa scelta?
Molti clienti si sono complimentati con noi per la scelta.Il tonno bianco Alalunga è pregiato e di grande qualità, quindi non abbiamo registrato nessun tipo di critica o lamentela. Questa tipologia di pesce, inoltre, oltre a non essere a rischio estinzione, rispetto alla variante rossa, contiene meno metalli pesanti, come il mercurio.Auspichiamo che anche altri ristoranti adottino questa scelta che, a nostro parere, fa parte di quelle decisioni che nobilitano il mestiere dell’imprenditore.

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