Da McDonald’s a Starbucks, è fuga da Mosca per i gruppi del food

Attività sospese dai gruppi con presenza diretta, restano (rinunciando alle royalties) quelli che hanno contratti di affiliazione
Da McDonald’s a Starbucks, è fuga da Mosca per i gruppi del food

Fu coda il 31 gennaio 1990, giorno di apertura del primo McDonald’s in piazza Pushkin a Mosca, quando si era in piena era Gorbaciov: “Se non puoi andare in America, vieni al McDonald’s a Mosca”, diceva lo slogan promozionale di quella prima storica inaugurazione.

Ed è stata coda anche l’8 marzo, quando i ristoranti del colosso mondiale dell’hamburger, 850 in tutta la Russia, hanno effettuato l’ultimo servizio prima della sospensione. Dopo 32 anni di onorato servizio, la catena ha deciso di interrompere l’attività sul suolo russo, anche per effetto della pressione internazionale verso le catene occidentali che ancora non avevano abbandonato il paese.

VIA ANCHE KFC

L’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo ha suscitato sdegno e reazioni immediate in Occidente e non soltanto a livello politico e sociale, ma anche economico. Le catene di moda sono state tra le prime a mettersi in standby, chiudendo i propri negozi (a cominciare da Hermès), nell’attesa che torni la pace.

Nella ristorazione la risposta è arrivata un po’ più lentamente ma poi, oltre a McDonald’s, se ne sono andati temporaneamente anche Starbucks e Kfc. Il tutto risponde a una strategia di isolamento verso il regime di Putin che si concretizza anche nell’impossibilità di effettuare operazioni ormai quotidiane come il pagamento tramite carta di credito, sospeso da Visa e Mastercard.

CHI RESTA

Non tutti, sul versante del food service, hanno però bloccato le attività. Tra i big del beverage, per esempio, se ne è andata via Coca-Cola, ma non Pepsico o almeno non del tutto: stop alla Pepsi Cola e alle altre bevande come Mirinda e 7UP, continua invece la distribuzione di prodotti per l’infanzia come latte artificiale e pappe.

Tornando all’hamburger, l’esempio di McDonald’s non è stato seguito dal principale competitor.

Burger King Russia è un business autonomo di proprietà e gestito dai nostri franchisee nel Paese. Abbiamo accordi legali di lunga data che non sono facilmente modificabili”, ha dichiarato un portavoce della società americana, annunciando però che i profitti delle 800 sedi in franchising in Russia saranno utilizzati per aiuti a sostegno dei rifugiati ucraini.

Un caso analogo riguarda Domino’s Pizza che ha 188 punti vendita nel territorio russo, tutti in franchising, e che continuerà l’attività pur rinunciando alle royalties.

FONDI PER RIMPIAZZARE LE ATTIVITÀ

Non è solo la presenza di accordi commerciali di affiliazione a frenare l’abbandono di massa del business in Russia, dove peraltro il regime si sta organizzando per reagire: il sindaco di Mosca, Sergei Sobyanin, ha annunciato lo stanziamento di 500 milioni di rubli per favorire l’ingresso “entro sei mesi-un anno” di locali che propongono menu tipici russi, le cui attività dovranno riassorbire gli ex dipendenti della catena del fast food americano (sempre che poi i clienti ci vadano…).

La scelta se restare o meno dipende anche dalle conseguenze per la popolazione, sia in termini distributivi per prodotti destinati all’infanzia – è il caso di Pepsico – sia per i lavoratori che finirebbero licenziati e senza stipendio. Poi, indubbiamente, c’è anche da mettere in conto le difficoltà di rientro nel mercato russo, una volta tornata la pace.

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