Mixology Academy: ‘’Così non va, barman italiani emigrate all’estero’’

La scuola specializzata nella preparazione professionale dei futuri bartender pubblica una guida che spiega quali sono i paesi in cui, oggi, è più facile lavorare dietro il bancone

Sono contrariati e parecchio delusi da come si stanno gestendo le cose in Italia. Restrizioni, divieti e misure anti Covid, hanno messo in ginocchio i bar sui quali pare quasi sia in atto un accanimento. Risultato: per chi lavora dietro il bancone la situazione è diventata insostenibile. A questo punto il suggerimento è un accalorato invito a fare le valigie e lasciare l’Italia per andare a cercare fortuna in qualche locale all’estero. Questo il pensiero drastico (e amareggiato) di Luca Malizia e Ilias Contreas, i due fondatori di Mixology Academy, scuola specializzata nella formazione di bartender, che hanno deciso quindi di inserire nei loro canali di comunicazione un link propedeutico che spiega, appunto, quali sono i paesi dove è più facile attualmente trovare un impego da barman, fornendo poi informazioni utili per pianificare al meglio la ‘fuga’ di lavoro. Andarsene Per saperne di più abbiamo interpellato Contreas che, dal Costa Rica, dove risiede e lavora da più di un anno, ci ha risposto spiegando senza troppi giri di parole quali sia l’idea di questa iniziativa.

Ilias Contreas, Mixology Academy
Ilias Contreas, uno dei fondatori della Mixology Academy

‘Bartender andate a lavorare all’estero’ … ma così facendo non si rischia di privare il nostro paese di alcuni dei migliori talenti del bancone?

La risposta è sì e no. Da un lato sì perché è impensabile che dei professionisti possano continuare a vivere senza uno stipendio o un sussidio adeguato. Le CIG in tutto il 2020 si sono fatte notare per l’estremo ritardo con cui sono state erogate, mettendo in crisi diversi giovani e meno giovani che non avevano ancora una condizione di stabilità economica, senza considerare che nel nostro settore in molti lavorano con la partita Iva o in nero (purtroppo), venendo così esclusi da qualsivoglia supporto. Detto questo, ritengo che il diritto al lavoro (in sicurezza) e la possibilità di svolgere una professione che i bartender amano, siano delle ragioni più che valide per giustificare e incoraggiare un’avventura in quei paesi in cui il comparto Horeca è vivo e vegeto nonostante l’emergenza sanitaria – che viene semplicemente gestita in modo diverso da come accade in Italia. D’altro canto, tornando alla domanda iniziale, la risposta è anche “no” perché andare all’estero per lavoro non significa doverci rimanere per tutta la vita. In molti fanno delle esperienze lavorative (e di vita) di qualche mese, un anno o più, arricchendo il loro bagaglio culturale e diventando dei professionisti migliori che, al rientro in Italia, potranno spendere le competenze acquisite per aiutare i locali in patria, o magari aprire loro stessi delle attività.

Sbaglio o la vostra proposta sa tanto di provocazione per fare capire meglio l’entità (e la gravità) del problema?

Più che una provocazione, trovo che la nostra proposta sia una conseguenza diretta del contesto in cui stiamo vivendo dal momento che, perseguire la propria felicità, è un istinto che non può e non deve essere arginato. Già prima del Covid avevamo una grossa fetta di studenti che arrivavano in Accademia con il biglietto prenotato per un paese straniero. Se uno Stato non investe nei propri giovani, credo sia inevitabile che questi vadano a cercare fuori un luogo in cui ci siano più opportunità per condurre una vita migliore. Quindi, se la nostra Guida per il lavoro all’estero sarà un input per partire, fosse anche per un breve periodo, non potrò che esserne contento.

Ma non è forse che qualche esercente sbaglia e… un po’ se ne frega? Basta farsi un giro per le zone dei locali delle maggiori città per notare che, forse, non tutte le regole anti Covid sono rispettate in pieno.

Sicuramente non tutti rispettano le regole e questo ritengo che sia dovuto a due fattori. Il primo è che è impossibile avere un controllo totale sulle persone. Il secondo motivo è che manca una comunicazione/formazione adeguata in termini di norme sanitarie, perché girano tante voci discordanti da mesi su cosa si dovrebbe fare e come farlo. In tutta onestà, ritengo che i locali tra chiusure integrali, parziali, limitazioni di posti e restrizioni di vario genere che si sono protratte per mesi, non si possano additare come responsabili della diffusione del virus, indipendentemente dai “furbetti”, e che sia sufficiente farsi un giro nei supermercati, nei centri commerciali, negli autobus e nelle metro per capire che il problema “potrebbe” essere altrove.

Come si dovrebbe agire secondo voi, senza mettere a rischio la salute degli avventori che scelgono di andare al ristorante o al bar?

Da più di un anno vivo in Costa Rica e qui, sin dal primo lockdown, i ristoranti sono stati liberi di aprire, seppure con una capienza limitata al 50% della propria capacità dichiarata, oltre alle norme globali di distanziamento personale, mascherine al chiuso quando si sta in piedi e igienizzazione delle mani. Eppure qui, come in tanti altri paesi del mondo in cui i bar e i ristoranti hanno potuto continuare a lavorare serenamente, i contagi non sono mai stati fuori controllo. Le terapie intensive, seppur limitate a poche centinaia di posti, sono piene al 50%, per cui la pressione ospedaliera c’è, ma ci si convive così come con tante altre malattie con una mortalità ben più elevata del Covid, come il dengue o la zyka.

Ma se le misure in Italia dovessero allentarsi nelle prossime settimane, rivedrete la vostra guida interattiva o l’ipotesi di andare all’estero rimane, a vostro giudizio, la scelta giusta da fare in questo momento?

Sono convinto che al massimo entro aprile il settore in Italia ripartirà. Da un lato mi auguro che la politica faccia il suo lavoro a tutela del popolo ben prima, ma dall’altro mi aspetto che la fine della stagionalità influenzale con i primi caldi riducano l’incidenza dei contagi registrati, proprio come è successo nel 2020 quando sembrava quasi che l’emergenza fosse lì lì per finire. Quando il mercato ripartirà, lo farà alla grande perché dopo mesi di limitazioni la gente ha voglia e bisogno di socializzare, per cui le prospettive sono più che rosee.

Il fatto di andare all’estero per lavoro resterà un’opzione più che valida per la loro crescita professionale, una possibilità in più per la loro carriera e la loro vita, ma quanto meno sembrerà meno “obbligata” rispetto a come appare adesso.

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