Personale di sala e bonus, il modello svizzero è impossibile

A Zurigo i camerieri nei locali di Florian Weber e Michel Péclard arrivano a quadruplicare il minimo salariale (fino a quasi 17mila euro mensili), ma i ristoratori italiani evidenziano le pecche del sistema-Italia
Personale di sala e bonus, il modello svizzero è impossibile

Nella Svizzera verde il salario minimo per il personale di sala nell’horeca– secondo il contratto collettivo di lavoro – è di 3.582 franchi al mese per lavoratori di livello base (senza specifici skill) e arriva invece a 4.369 franchi per il personale che abbia compiuto un percorso formativo e di apprendistato. Il franco svizzero vale circa 1,05 euro, il che significa che un lavoratore appena assunto può ambire a una paga che supera i 3.700 euro e con maggiore esperienza spingersi oltre i 4.500 euro.

Ah la Svizzera… decisamente non cheap ma con salari da sogno. Ecco, forse qualcuno si potrebbe aspettare una corsa all’oro verso posizioni lavorative di (presunta) limitata responsabilità, eppure anche in territorio elvetico ristoranti, bar e hotellerie si trovano a fronteggiare il problema della scarsa reperibilità di risorse da impiegare, soprattutto in sala.

Accade così che se negli USA hanno alzato le paghe, in quel di Zurigo ristoratori come Florian Weber e Michel Péclard abbiano varato un meccanismo di premialità per i propri impiegati, collegando l’attivazione di bonus consistenti all’incremento di fatturato. E siccome in Svizzera “consistenti” deve avere un significato particolare, il salario dei loro camerieri può arrivare a quadruplicare il (già non disdicevole) minimo salariale. E ha fatto scalpore il bonus che ha consentito a un cameriere del Mönchhof di Zurigo di arrivare all’incredibile cifra di 16.500 franchi, tutti versati senza batter ciglio dalla Pumpstation Gastro GmbH group di Michel and Weber, in quando le regole d’ingaggio erano chiare e portano lo staff a ricevere bonus tra il 7 e il 9% del fatturato realizzato dal ristorante.

In Italia? Il fisco blocca i bonus

Visto da casa nostra il tutto suona come una favola o una presa in giro. Eppure viene da chiedersi, al netto della differenza con la situazione e con i valori della Svizzera, se non sia percorribile anche in Italia una strada simile. Ascoltando gli imprenditori del fuori casa, sembrerebbe di no.

“A prescindere da quella che è la sostanziale differenza di contratti e tassazione – replica Paolo Anzil di DaDa in Tavernacrediamo sia senza dubbio una iniziativa utile al lavoro ed al benessere del lavoratore”. Eppure il ristoratore milanese vede una difficile applicazione in Italia, perché “il rischio che crediamo più concreto sarebbe l’aumento degli illeciti fiscali”.

“Senza dubbio il primo incentivo rimane sempre una remunerazione extra rispetto all’importo pattuito – specifica Anzil – questo però dovrebbe essere sostenibile sia per il datore di lavoro che per l’impiegato stesso. Ad oggi, troviamo che il tempo libero sia il secondo fattore (non per importanza) che può incidere sul rendimento dell’impiegato, ma alo stesso tempo diminuire le ore di lavoro e dunque aumentare le persone assunte è spesso impraticabile per la maggior parte delle aziende”.

Anche lo chef Tommaso Arrigoni di Innocenti Evasioni a Milano rimarca come il contratto di lavoro svizzero non sia paragonabile al nostro. “Purtroppo non dovrebbe essere il singolo imprenditore a tentare di cambiare un sistema che è ormai vecchio e non rispecchia i tempi che cambiano – afferma – ma una sinergia tra istituzioni (che ignorano il problema), imprenditori e lavoratori”. Ecco perché lo chef vede come impossibile l’applicazione in Italia: “Tutto ciò che entra in busta al lavoratore costa il doppio all’imprenditore – attacca – perché abbiamo un sistema di tassazione assolutamente sfavorevole. Gli incentivi non dovrebbero essere tassati e forse ci si potrebbe pensare”. E aggiunge: “l’Italia è un paese che dovrebbe basare la maggior parte delle sue entrate sul turismo, l’arte di ospitare dovrebbe essere insegnata nelle scuole dell’obbligo tanto quanto l’ora di religione e l’ora di educazione civica. Fatto questo avremmo una popolazione dedita a valorizzare il nostro patrimonio, appassionata della nostra cultura ed entusiasta di offrire ospitalità. Se poi i datori di lavoro avessero la possibilità di mettere più soldi nella busta paga e meno negli F24 le cose andrebbero sicuramente molto meglio”.

Attaccamento all’azienda più che bonus

L’alternativa? Spingere sull’attaccamento alla maglia. “Sicuramente un bonus economico è importante – osserva Daniel Canzian dall’omonimo ristorante a Milano -. Ma secondo me la cosa più importante, citando Michele Ferrero, è coinvolgere in alcune decisioni le persone con cui si collabora, facendoli sentire parte di un progetto. È importante far crescere le persone spiegando e mai umiliando il loro contributo. L’obiettivo si raggiunge tutti insieme, facendo ognuno la propria parte. Bisogna tenere a mente che il cliente deve essere contento e se contento tornerà, ma se non lo è sceglierà un altro nostro competitor. Noi proviamo a far questo”.

Sulla stessa linea anche Pietro Nicastro, cofondatore di Löwengrube. “Noi stiamo lavorando molto sul senso di appartenenza – spiega – senza per questo escludere gli incentivi, anche se ovviamente non possono esser comparabili con quelli svizzeri. In Italia il grosso problema è la tassazione che non permette incentivi così importanti”. Il coinvolgimento del team è però il vero punto di forza. “La nostra prima apertura è di vent’anni fa nella periferia di Firenze – chiosa – e tutto il team di allora è ancora con noi oggi. Sono tuti cresciuti, perché i ragazzi che facevano i camerieri mentre studiavano dopo la laurea hanno assunto posizioni più importanti, dall’amministrazione agli acquisti alle operations. Questo ha creato un forte senso di appartenenza non solo per i diretti interessati, ma anche dopo aver avviato il franchising il team ha visto la crescita professionale che noi offriamo e questo genera entusiasmo”.

Se le opportunità rappresentano una sfida a crescere per i dipendenti, dopo il covid è cambiato qualcosa. “Fino al 2019 era tutto più semplice – conclude Nicastro – ma dopo la pandemia è cambiato qualcosa. Chi era già con noi sa gli sforzi che abbiamo fatto per rimanere uniti durante i lockdown, ma chi arriva ora non ha lo stesso attaccamento”.

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